Michele Capobianco, Breve elogio della discrezione

Non piccolo merito della cultura architettonica militante italiana più recente è quello di aver posto, come centrale nella riflessione sul progetto urbano, la questione della restituzione del centro storico alla città, attraverso l’affermazione del rapporto di reciprocità che fra essi intercorre. In questi termini il problema era stato introdotto da Giulio Carlo Argan: “Ciò che interessa nella città – scriveva – è il suo sviluppo, e cioè i suoi mutamenti nel tempo. E questi mutamenti non obbediscono a leggi evolutive, sono l’effetto di un contrasto di volontà innovatrici e tendenze conservatrici (…) – per aggiungere polemicamente – (…) una delle contraddizioni del nostro tempo sta nel fatto che le forze politiche progressive tendono a conservare e le forze politiche conservatrici tendono a distruggere il tessuto storico della città. L’organicità del sistema urbano è data, in ogni caso, dalla storia: anche quando la città è nata da poco ed ha una storia breve. Infatti l’idea che abbiamo della città, e che non è stata per il momento mutata, è quella di un accumulo culturale che dà al nucleo la capacità di organizzare un’area più o meno estesa di territorio. Senza questi punti di concentrazione e di irradiazione culturale non è concepibile, a tutt’oggi, alcuna forma di organizzazione dell’ambiente” (1).
Analogamente il rapporto tra antico e nuovo, fra centro storico e nuovi insediamenti si pone come sistema di correlazioni che rende leggibile il passaggio strutturale dalla città storica alla città contemporanea, collegando strettamente i due discorsi: quello del recupero del centro storico e quello dell’integrazione delle periferie, a conferma della validità del problema posto nella cultura architettonica moderna della città nella sua interezza.
La città è nell’organicità del rapporto contestuale, sottolineava ancora Argan a conclusione della sua appassionata difesa della civiltà dell’urbanesimo, poiché: “La città è una entità storica assolutamente unitaria, e uno dei grandi compiti degli architetti è precisamente quello di riscattare le periferie da una condizione di inferiorità o addirittura di semicittadinanza. E questo non si può ottenere altrimenti che stabilendo in tutta la città una circolazione culturale uniforme che ne faccia, veramente, un sistema d’informazione. Ora, nell’informazione non possono esserci diversi livelli qualitativi; e non è ancora dimostrato che la flagrante attualità della notizia escluda ogni possibilità di giudizio storico (…). E’ un’entità politica che deve trasmettere il senso della propria politica e non si vede come possa farlo se non giustifichi la propria politica con la propria storicità. E poiché la storia non è fatta solo di glorie, fa parte della storia anche la gestione non soltanto negativa, ma contraddittoria rispetto a tutte le tradizioni culturali urbane: i misfatti della speculazione, lo scandalo delle case senza gente, e della gente senza la casa, la caotica gestione del traffico, l’insufficienza dei servizi sociali e del verde, la scarsa mobilità della cittadinanza a causa della difficoltà degli uffici, la mediocrità culturale,ecc. …” (2).
Tanto più pertinente è il senso di questo progetto di recupero della città, quanto il “ridisegno” del tessuto storico sia diretto a parti del sistema urbano, dove decenni di immobilismo hanno portato a un degrado ambientale e socio-economico dai livelli intollerabili.
Ne deriva, in ogni caso, la necessità di ridefinire gli obiettivi dell’intervento nelle zone del tessuto urbano storico, dove il recupero della centralità deve essere riferito all’uso “sociale” della città da parte del cittadino, in una concezione della spazio urbano come organizzazione di vita e di scambi. In altri termini l’ipotesi del rinnovo urbano deve coincidere con quella del rinnovo sociale, e non della sostituzione sociale del tessuto urbano del centro storico, in direzione diversa, cioè, da quella prospettata da ipotesi di piano, che passano per l’espulsione dei ceti sociali meno provveduti dal centro: ne scaturisce la necessità di configurare un quadro d’intervento di ‘pianificazione programmata”, dove le ipotesi di conservazione o rinnovo siano misurate in termini di qualità dell’ambiente, puntando l’attenzione al problema della casa, al controllo fondiario, all’attuazione dei servizi indispensabili per la vita della comunità, alle strutture di servizio per l’educazione, per l’assistenza medica e per il tempo libero, a quelle strutture funzionali collettive che hanno ruolo paritetico a quello delle strutture per abitazioni.
I centri storici,di piccole, medie e grandi comunità, si pongono, quindi, come l’elemento “centrale” della questione urbana, sia per l’articolazione delle scelte metodologiche – indipendentemente dalla complessità o meno di esse – da introdurre per il loro rinnovo e la loro promozione dell’interno dei sistemi urbani, sia perché gli interventi finiscono col rappresentare il reale e il più concreto e immediato terreno di confronto su cui misurare la capacità di leggere le vocazioni degli insediamenti, di portare alla luce il disegno di quei progetti per le città, spesso e a lungo soffocati dalle inadempienze e dai ritardi delle gestioni. Vere e proprie armature della città moderna, sulle scelte che li riguardano possono essere verificate in termini reali le valenze progressive o conservatrici delle proposizioni teoriche come delle dichiarazioni di intenti, dal momento che l’emancipazione del “centro storico” dalle sue condizioni di degrado coincide con la possibilità di recuperare una lunga serie di occasioni perdute, ripensando gli interi insediamenti dalla “testa”, per restituirli ai tempi delle loro storie possibili.

Il tema dell’intervento moderno nei centri storici, che è tema ricorrente ed insistito nella riflessione e nell’attività didattica dell’architetto Salvatore Polito, identifica, quindi, oggi, una materia ancora incandescente, densa di problemi ed implicazioni teoriche e pragmatiche, che riguardano la più generale questione del disegno urbano, passando attraverso una polemica violenta contro il progetto moderno, che sembrava sopita e dispersa nella deriva dilagante del post-moderno. Una polemica che si rianima ogni volta che una proposta agita la tranquillità dello stato di fatto o le certezze del restauro urbano, ultima, e non la più coinvolgente, quella di Frank O. Gehry per Modena.
Fuoco sotto la cenere, perché se i termini non sono quelli del confronto Bruno Zevi v/s Hans Sedlmayr (3), non sono certo più rassicuranti, per i futuri destini della città, certe contemporanee attitudini a rimuovere completamente il problema della riqualificazione e del cambiamento nel rassicurante rifugio di un improbabile mimetismo: rimozione che arriva ai giudizi sommari di una aggressiva avanguardia neo-ambientalista, poco avvezza a porsi i problemi della condizione storica presente, viceversa impegnata in una nuova caccia alle streghe, in nome di un malthusiano ritorno alla piccola comunità di villaggio, come in un film sperimentale girato all’inverso, inseguendo il mito della cultura preindustriale.
Difficile cogliere i nodi degli inevitabili equivoci, di fronte al richiamo della coscienza ecologica e ambientalista, tuttavia è certo che ogni operazione di risanamento non può prescindere da una esigenza di rivitalizzazione, misurata nel presente e proiettata nel futuro, deve perciò far appello alle capacità di una immaginazione, che non passi per i calchi linguistici o per i prestiti del passato, ma guardi alla ricontestualizzazione del linguaggio, alla restituzione dei rapporti fra gli spazi alla luce delle realtà sociali della nostra epoca, facendosi carico dei nuovi processi d’identità che la storia della città introduce.
In questa prospettiva un primo ordine di riflessioni si orienta sulla nozione di estraneità del centro antico rispetto alla città moderna, nel permanere di una ideale linea di confine fra l’antico insediamento e il proliferare dei nuovi tessuti costruiti, secondo logiche e tracciati affatto difformi. Negli insediamenti antichi il confine fra due spazi, riflette Leonardo Benevolo, il margine che segregava il recinto urbano dalla campagna, si proiettava nelle mura, torri, porte: argine di una deriva indifferenziata, in cui la città si costituiva come isola. In età moderna la rottura di questo confine, apre quindi un problema complesso, che è proprio del nostro tempo, quello della concentrazione opposta alla rarefazione spaziale e funzionale. “La compattezza dei nuclei di antica origine – i centri storici della città di oggi – ci sembra il paradigma dell’urbanità, da riconquistare in tutta la città. La perdita dei confini viene indicata come l’origine della disintegrazione dell’ambiente urbano. La nozione del “recinto” (l’isolato, la piazza, la composizione architettonica chiusa in certa misura autosufficiente) viene usata frequentemente come rimedio alla dispersione e al disorientamento del contesto”(4).
Questione diversa e più pertinente è quella invece che riguarda direttamente il lavoro sui temi della storia e della tradizione come materiali rilevanti del progetto a partire dalla centralità della questione urbana nel territorio e dalla imprescindibile tutela del patrimonio storico: difficile banco di prova per il progetto moderno, ma tuttavia passaggio obbligato e necessario in una situazione densa di cultura e fortemente stratificata come quella del nostro paese, che pone al primo punto dell’agenda il problema della qualità morfologica dell’intervento architettonico nuovo, a garanzia dell’unica mediazione possibile fra antico e nuovo.

A scongiurare il rischio di ogni facile storicismo l’architetto Polito nelle sue ricerche rivendica preliminarmente la specificità genetica di ogni prodotto estetico attraverso una nozione del centro antico come opera d’arte, da assumere con la dimensione conoscitiva che gli è propria, che non si esaurisce nel catalogo delle misure, né è risolvibile nel registro degli usi, o del contesto sociale, ma acquista parole diverse nel mutare del tempo e delle condizioni.
Da qui l’assunzione di partenza di un discorso, che assimilando il centro antico all’opera d’arte, ne sancisce certamente l’intangibilità, sottolineando tuttavia la necessità, nell’intervento di recupero, di risanamento, di integrazione, di coglierne l’unicità, la singolarità irripetibile. Quanto sia difficile questa posizione è testimoniata dagli studi di Giuseppe Samonà sul centro storico di Palermo (a cui  fa riferimento Polito), rimasti sulla carta, anche per le oggettive difficoltà di comunicazione in un determinato clima politico e in un determinato livello culturale.
L’attenzione di Polito si appunta sulle tecniche proposte a partire da una esigenza prioritaria, quella di sfuggire ai vincoli di applicazioni dogmatiche come al rischio dei limiti dei diversi specialismi, attraverso l’antidoto della flessibilità della metodologia, che ogni volta ripropone il particolare, il dato singolo, come espressivo del sistema di coordinate generali.
All’esplicito riferimento alla lezione di Giuseppe Samonà: “L’unico e solo modo possibile di progettare nel centro storico è quello che consegue alla scoperta di tutte le relazioni interne alla sua configurazione fisica”, fa riscontro l’insoddisfazione nei confronti dei principi teorici generalizzanti, dettati da una astrazione che si proietta anche sulle regole tipo-morfologiche proposte dalla scuola di Saverio Muratori, come inadeguate a cogliere il carattere figurativo del contesto a fronte di realtà storiche stratificate e complesse. Egualmente l’architetto non ritiene accettabile una definizione che muova da una accusa generalizzata di degrado, accusa che rischia di  costituirsi come la porta d’ingresso per una politica di sostituzione edilizia, rinviando la leggibilità del giudizio di degrado sulla perdita di identità e ruolo urbano della parte, in altri termini al singolo contesto.
Da qui la richiesta di una libertà di scelte metodologiche, che consentano di misurare e adeguare l’intervento sul caso specifico, dove le tecniche da adottare vanno riferite alle caratteristiche dell’impianto, ma dove la corrispondenza della soluzione architettonica è fissata dalla scala urbanistica della città antica.
In questo senso i riammagliamenti del centro storico di Aversa, gli inserti nel centro antico di Napoli, le proposte di risistemazione del centro storico di Bari, riflettono una scelta di tecniche di intervento all’interno della struttura, che, per adoperare i termini dell’architetto Polito, risultano ogni volta “dedotte dal processo di costruzione della città”.
E’ un ordine di problemi che investe direttamente quelle che Vittorio Gregotti identifica come le “condizioni materiali” dell’architettura (5), cioè la natura delle situazioni territoriali e insediative in cui si interviene, e più particolarmente la compatibilità fra le richieste di modernizzazione della città contemporanea e i limiti dello sviluppo posti dalla tutela delle preesistenze.  Da qui l’emergere dell’importanza della lettura del rapporto col contesto, o meglio – come sottolinea sempre Gregotti – la dimensione del problema disciplinare della costituzione e del controllo della relazione progettuale fra il progetto, come modificazione, e la verità del luogo, la sua sedimentazione storica, fino al livello dell’emozione e della percezione dell’immaginario collettivo proiettato nel costruito.
Quest’ordine di problemi non prevede risposte: le regole vanno costruite volta per volta, la dimensione metodologica è quella del dubbio: le risposte dell’architetto Polito seguono coerentemente la linea del progetto discreto , del confronto continuo con ciò che gli è accanto, del rifiuto del gesto aggressivo.

Probabilmente la riflessione più feconda, sia pure sommessamente enunciata, nella recente architettura italiana, è suscettibile di sviluppo proprio in questa direzione, dove nel crollo delle ideologie, nella fragilità dei riferimenti culturali, nella contaminazione spesso confusa dei programmi e dei linguaggi sembrava inevitabile la riduzione del dibattito nell’opposizione fra conservazione e innovazione, in termini dunque non conciliabili, e tali da accantonare il problema del mutamento della città, che viceversa richiede una ridefinizione progressiva del rapporto antico-nuovo rispetto alle direzioni del cambiamento. Ed è proprio nella coscienza della transizione, del cambiamento, che la ricerca trova un suo principio di necessità.
Ciò che muta più rapidamente – è ancora Vittorio Gregotti a sottolinearlo – è che: “l’insieme della città e del suo territorio guardano sempre più, all’informazioni, interscambi, valori localizzati fuori. Un processo di deterritorializzazione che non muove dallo scambio con altri luoghi territoriali, ma da una conoscenza senza sede” (6), processo rispetto al quale la città storica si presenta come naturale soglia di resistenza, ma anche area privilegiata di sperimentazione, conservando intatti valori e identità. L’esercizio ermeneutico di richiamare il passato secondo una logica necessaria, come indispensabile e complementare alla comprensione del presente presiede all’intervento moderno  nella misura in cui le questioni del passato, nella profondità prospettica del tempo, costituendosi come lo sfondo adeguato del contemporaneo, permettono di vedere meglio ciò che rischia di deformarsi o di disperdersi nella deriva della città nuova. Peraltro l’intersezione fra due piani (città antica e città nuova) diviene il luogo privilegiato di esplorazione della trasformazione e della crisi, in cui i problemi della qualità urbana vengono affrontati con maggiore capacità di comprensione, ricondotti alle loro essenziali verità.

1) G. C. Argan, relazione in Dall’architettura alla cultura, “Atti del convegno”, Termoli, 5-6 luglio 1980, p.8 e  sgg.
2) G. C. Argan, ibidem
3) B. Zevi, ”Gli antichi amori di Hans Sedlmayr”, Editoriali di Architettura, Einaudi, Torino 1979, pp. 112-116.
4) L. Benevolo,” Confini”, XVIII Esposizione Internazionale, Biennale di Milano, La vita fra le cose e la natura: il progetto e la sfida ambientale, Catalogo della Mostra, Electa, Milano 1992, p. 177.
5) V. Gregotti, Le scarpe di Van Gogh, Einaudi, Torino 1994, p. 83 e sgg.
6) V. Gregotti, L’identità dell’architettura europea e la sua crisi, Einaudi, Torino 1999, p.83.