Francesco Domenico Moccia, Tre progetti nel Corpo di Napoli, in L’Industria delle Costruzioni, 268, 1994
Salvatore Polito ha pubblicato il suo primo studio sul Centro Antico nel 1983. Da allora gran parte delle sue energie intellettuali sono state assorbite dal difficile tema del recupero della parte più bella e antica della città di Napoli. Il suo sistema di pensiero non si lascia attrarre dalle connessioni e implicazioni delle catene di fattori che determinano il degrado, ma sceglie tra di essi uno e lo penetra in profondità scoprendone progressivamente tutte le più riposte sfaccettature. Polito si è appassionato all’architettura come opera d’arte. Infatti parla del Centro Antico come di un quadro, da restaurare: perché il degrado, nella sua ultima conseguenza ha deturpato la forma e attentato all’integrità di quell’opera. Questi tre progetti aspirano a configurare una norma di intervento per eliminare i vuoti inopportuni o sostituire gli edifici estranei al contesto morfologico. Le proposte di ricostruzione sono il punto di arrivo della sua ricerca, le cui tappe precedenti passano attraverso la minuziosa conoscenza storica e morfologica di ogni manufatto e la proposta urbanistica. Già appare significativa questa interposizione di una visione di insieme all’uso frequente di precipitare immediatamente i progetti di sostituzione edilizia derivandoli direttamente dall’analisi dell’architettura storica. Con questa seconda procedura si scivola immediatamente nella mimesi stilistica, si finisce per adoperare un linguaggio classicista modernizzato vicino alle stilizzazioni e semplificazioni di Perret. Senza il momento urbanistico viene a mancare l’aggiornamento degli standard e si ripropone un’edilizia “modernamente” inabitabile. Ridisegnare, invece, i lotti, le partizioni della proprietà, le relazioni con il contesto, ha questo primo scopo di assicurare che i problemi funzionali possano essere risolti (purché dimensioni e forme del lotto siano sufficienti a assicurare gli affacci occorrenti, per esempio) e poi di separare la nuova architettura nella sua autonomia figurativa.
La riproduzione tipologica, teoricamente sempre possibile, secondo Polito si limita di fatto ai tessuti seriali – come quelli di impianto gotico – e non si può applicare al palazzo nobiliare rinascimentale e barocco che satura i tessuti del Centro Antico con una continua variazione di singolarità. Giustamente non ammette, mai, l’imitazione stilistica: infatti la nostra architettura storicistica, peggio del post-moderno, ripropone le “strutture” dello stile, perdendo il distacco ironico di quest’ultimo nella esibizione della citazione e dei suoi valori associativi. Polito rifiuta ogni atteggiamento letterario. La sua estetica è rigorosamente conclusa nell’esperienza dello spazio e delle forme plastiche mediante i sensi e, al più, la memoria, ma non l’intelletto e le sue rievocazioni. La sua relazione con l’architettura storica è molto simile a quella tracciata da Geoffrey Scott, secondo i principi dell’Einfühlung e poi ripresa da Charles Moore. Si avverte nel richiamo della densità il suo effetto psicologico di oppressione, nella sua rottura in discontinuità, la sorpresa. L’ambiente costruito è evocato da Polito come teatro: la scena muta della vicenda umana o lo spazio emotivo già suscitatore della tragedia? Seguendo il suo testo si avverte il movimento del corpo tra i vicoli, si penetra negli androni attratti dalla luce, dallo spazio e dal verde dei cortili, si percorre la direttrice verticale dal sottosuolo archeologico al cielo dei lastrici con la stessa elevazione ritmica impressa al corpo dal movimento dell’inspirazione. Il cilindro, il cavo, la spirale, il vaso possono evocare un simbolismo femminile, l’origine della vita nell’utero materno, il movimento senza fine lungo la circonferenza, ma questi discorsi ci porterebbero su quel terreno letterario rifiutato dall’autore. Per restare aderenti alla sua personalità dobbiamo restare nei binari della disciplina e cercare le associazioni tra forme, sulla loro capacità di imporsi alla volontà creativa. Per questa via la famiglia dei “cilindri” riunisce un vasto immaginario di architettura moderna, dai silos del grano celebrati da Le Corbusier, al Guggenheim Museum di Wright, alla Marina Towers di Goldberg.
La composizione è elementarista, ma non rinuncia alla complessità ottenuta con l’intreccio di forme semplici: le tre diverse forme del lotto producono tre aggregazioni diverse della medesima sagoma. Nel progetto disegnato insieme a Salvatore Neri, i cerchi si affiancano in adiacenza; in quello con Luisa Olivieri, si incastrano creando un articolata scala aperta; in quello con Sandro Ascione, aggiungono all’incastro la sovrapposizione a terrazza lungo il pendio. Una volumetria così antiurbana come il cilindro sarebbe in netto contrasto con l’assunto iniziale dell’inserimento in una morfologia a isolati edificati a cortina se non fosse “adattata” al perimetro dal recinto. La parete talvolta altissima dei conventi, ricca solamente della tessitura della pietra, esercita un impatto tra i più potenti nelle strade di Napoli Antica e non poteva mancare di imporsi profondamente al gusto moderno della semplificazione decorativa e dell’amore per i materiali. Tra il recinto e il cilindro, come tra cilindro e cilindro, bisogna andare a osservare attentamente le zone di soglia, gli spazi residuali, le sfrangiature, perché in questi passaggi si risolve il progetto, si accumula la sua qualità.
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