Il problema del centro antico
L’approccio al centro antico come a un’opera d’arte è la premessa che consente di superare la diatriba sul che fare e, grazie alla scelta a questo punto indispensabile e generalizzata dell’intervento di restauro urbanistico e architettonico, puntare subito al come fare – quindi ai problemi propri del progetto di architettura. Poiché di un intervento di restauro è indiscutibile la finalità – ripristinare l’unità figurativa dell’opera d’arte --, la condizione di lavoro sembra rendere subordinato e limitato l’intervento del progetto moderno, una condizione che si rivela invece stimolante e interessante per il progetto che non insegue l’autorappresentazione e si esprime privilegiando il procedimento critico alla ricerca di quelle relazioni più complesse che ne sostanziano e motivano la radicalità.
Una così drastica semplificazione del problema ha innanzitutto la conseguenza metodologica di assegnare assoluta preminenza agli aspetti individuali, singoli, eccezionali, unici. Se l’ispirazione deve evidentemente molto all’insegnamento di Giuseppe Samonà (“L’unico e solo modo possibile di progettare nel centro storico è quello che consegue alla scoperta di tutte le relazioni interne alla sua configurazione fisica”), il metodo coerentemente evidenzia la singolarità di ogni episodio edilizio contro qualsiasi pseudo-scientifica classificazione. L’astrazione in regole generali tipo-morfologiche, più o meno finalizzate alla progettazione, inevitabilmente finisce per sottovalutare il carattere figurativo del contesto. Le posizioni di Saverio Muratori e della sua scuola hanno avuto giustamente ricadute vaste e penetrazione profonda, ma una “scheda storico-tipologica di rilevazione” è utile certamente per i tessuti gotici, i tessuti pianificati in generale, ma può dire niente della realtà stratificata di un centro antico meridionale.
Il problema dei centri storici è stato sempre affrontato come il problema del loro degrado. Il degrado invece non può mai essere utilizzato come un criterio di giudizio perché, applicato per unità immobiliare, trascura e ignora l’unicità della parte; maschera in realtà un giudizio negativo sui tipi edilizi antichi e un’aspirazione al nuovo – alla sostituzione edilizia. Vere e proprie aree di degrado sono solo quelle che hanno perso identità e ruolo urbano: la scelta tra antico e nuovo deve quindi rendere esplicito il giudizio complessivo sulla parte e il dilemma: città antiche - edilizia nuova o città antiche - edilizia antica va rinviato ai singoli contesti. Per il primo caso (con scarsi riscontri da noi, a parte le dispute, sono andato a verificarlo in Olanda, dove l’azione di trasformazione dei centri storici è andata avanti dalla fine degli anni ’70 senza troppe esitazioni) (1), il metodo è noto: sì alla permanenza dell’impianto urbanistico e no, quindi, alla permanenza dell’unità particellare; sì al nuovo senza trucchi e mimetismi, per migliorare l’offerta dello standard abitativo. I risultati (pensando al caso di Amsterdam): il nuovo si presenta con un effetto di propagazione che la struttura urbanistica non riesce a assorbire (viceversa, le aspirazioni di trasformazione risultano immiserite o miniaturizzate). Nell’altro caso, il ripristino tipologico (vedi l’esperienza bolognese) postula innanzitutto la continuità della scala edilizia, nel senso che un tessuto gotico può essere perfettamente riproducibile proprio per la continuità dello standard edilizio antico con quello moderno. La legittimità dell’esperienza bolognese era sostenuta dalla oggettività della restituzione catastale, in realtà fu un intervento urbanistico legittimo perché sostenuto da un giudizio coerente sulla omogeneità e continuità della parte, poi fu una scelta architettonica efficace, ad esempio, nel restituire la scansione spazio–temporale dell’edilizia antica. In entrambi i casi il vero problema che costituisce un metro di giudizio, resta in ogni caso la corrispondenza della soluzione architettonica alla dimensione già fissata dalla scala urbanistica antica.
Le tecniche da adottare vanno ogni volta riferite al giudizio sulle caratteristiche dell’impianto. Dalla proposta per il recupero dei Quartieri Bassi a quella per la risistemazione del centro storico di Bari, dai “riammagliamenti” previsti per Aversa agli “inserti” calati nel centro antico di Napoli, sono tutte proposte molto differenziate che ripropongo per un approfondimento. La scelta del recupero dell’impianto gotico nel settore del mercato a Napoli è a prima vista sorprendente (2): il degrado strutturale subito non sembrerebbe giustificare la conservazione neppure limitatamente alla tipologia, tanto rilevante è la quota edilizia andata perduta tra distruzioni belliche e sostituzioni. Ma la scelta è stata indipendente dal giudizio sulla condizione edilizia ed è passata per il giudizio sulla attualità dell’impianto. Infatti “il problema dell’alternativa tipologica può essere risolto coerentemente solo dopo aver accertato l’attualità o l’obsolescenza della struttura nel nuovo organismo urbano. Allora, in quel caso, tramontata l’ipotesi del Quartiere dei Commerci e quando è avviato l’allontanamento delle attività che sovraccaricavano il settore, l’impianto antico si riscopre come l’unico capace di garantire un riuso equilibrato del quartiere e insieme confermare quella compattezza ineliminabile nella concatenazione della struttura morfologica della città storica. A questo punto il riconoscimento dell’impianto comporterà la conferma del tessuto strutturato sull’identità della casa col lotto; la conservazione non potrà attuarsi se non completando il tessuto superstite; il completamento non potrà essere che la riproduzione del tipo” (3).
Ma una proposta più recente, quella che ricostruisce un intero settore del centro storico di Aversa, affronta allo scoperto il rischio della riprogettazione della città antica (4). “Progettare la morfologia” (attenzione, al Paese dei Barocchi mancò sempre l’intelaiatura urbana) significa conoscere la struttura del modello urbano a tal punto da simularne i comportamenti come in un laboratorio, immettendo volta a volta gli impulsi (i vincoli) necessari al progetto. Si tratta chiaramente di un procedimento intuitivo, difficile da descrivere come un processo di pensiero formale, fondato su un senso della forma urbana che naturalmente ha bisogno ogni volta della verifica del progetto. Non è una progettazione storicistica perché ha il realismo della simulazione applicata a una struttura continua (il tessuto) che produce effettivamente la sequenza del microrganismo urbano; non è neanche l’esaltazione tipologica dei “riammagliamenti” muratoriani - ma anche di tutti gli esercizi della “scuola tipologica” più recente -, dove l’accentuazione della serialità finiva per dilatare quel carattere di simultaneità proprio del nuovo, estraneo quindi all’esperienza spazio–temporale della città storica.
L’impossibilità invece di ricostruire i tessuti è riconosciuta e indagata nello studio per la risistemazione del settore del centro storico di Bari investito a suo tempo dal Piano Petrucci (5), un intervento considerato esemplare per una duttile applicazione della tecnica del diradamento (in realtà un tentativo di riforma spaziale destinato al fallimento: per la continuità che l’impianto antico incessantemente reclama; per le lacune e le lacerazioni che i tessuti denunciano quando si ritrovano scoperti sui nuovi invasi). Davanti alla radicale distruzione dei tessuti e dei percorsi, nell’intento di annullare la misura urbanistica dell’intervento e ricompattare la parte, assorbendo la sequenza dei diradamenti che dilagano intorno al Duomo, la tecnica suggerita appare più complessa: una sequenza intervallata e spezzata di quinte, come controforma di quelle superstiti, in modo da comprendere le trasformazioni ma ricompattare la trama degli alvei. Si delinea un progetto che precisa esclusivamente il sistema degli spazi e il ruolo architettonico delle quinte, mentre lascia indeterminato il contenuto degli inserti, supposti come vuoti in cui alloggiare volta a volta il congegno che ne consente l’attivazione.
Ma il ripristino tipologico risulta irrealizzabile soprattutto quando registriamo la rottura tra lo standard antico e quello moderno: è drammaticamente il caso del centro antico di Napoli, dove l’impossibilità di riprodurre i tipi edilizi storici, caratterizzati da una scala architettonica non più riproponibile se non a prezzo di una ridicola miniaturizzazione, rinvia ogni volta alle possibilità offerte dalla condizione specifica del lotto per sviluppare il carattere figurativo del contesto (6). Sembra a questo punto riemergere il rischio di un ritorno all’ambiente e all’ambientalismo. In realtà la possibilità di una soluzione impressionista o di atmosfera risulta negata dal carattere intrinseco dei luoghi; il forte sentimento di chiusura della parte respinge ogni aspirazione all’«intimità urbana»; l’affermazione del diritto al Moderno recede di fronte all’opposizione esercitata dall’Antico. Neanche aiuta il ricorso alla scaltrezza dell’intervento “interstiziale” o la perizia del “frammento”, inadatti in un contesto caratterizzato dalla chiarezza dell’impianto e della relazione tipo–morfologica. Le soluzioni riuscite saranno dunque quelle che combineranno invenzione tipologica e condizionamento morfologico, sfidando apertamente i limiti imposti e liberando quella complessità di cui in questi casi il progetto ha disperato bisogno (7).
Il progetto nella città antica è sostenuto da una certezza: l’analisi della struttura consente di riconoscere la natura della parte e prevederne la trasformazione, evitando l’arbitrarietà del segno isolato. Punto fermo è il riconoscimento dell’opposizione interno–esterno, fondamentale per orientarsi e riconoscere la struttura. Se sul primo versante continuità e compattezza sono dati ineliminabili, all’opposto, sull’altro, isolamento e distanziamento sono la regola. L’interesse dei temi centrati sulla presenza del monumento si spiega proprio per il doppio ruolo che svolge, colto ogni volta sul limite della relazione. A Cefalù dall’attenta lettura dell’architettura del Duomo si può dedurre la traccia della trasformazione coerente – volta a assicurare il suo isolamento dalla struttura urbana (8); a Molfetta, da quando il Duomo ha perso il guscio murario che lo avvolgeva, si pone il problema di definire un ambito architettonico mai previsto - come è giusto è il monumento che svela una tale forza da imporre la soluzione (9); a Bari, dove il monumento è l’intera città antica fino al promontorio, eliminando l’infrastruttura viaria che la circoscrive, ritorna in forma compiuta l’immagine della città vecchia isolata sul mare (10). Solo per Santa Chiara a Napoli il problema, dopo la manomissione dell’antico recinto, appare senza soluzione (vi sono ritornato tre volte, a partire dalla riproposta del progetto di Marcello Canino), a dimostrazione che il rapporto monumento contesto nella città storica aveva acquisito una naturalità intrasformabile (11).
Alterazioni, trasformazioni, recinti, inserti, lacune elencano le tecniche di intervento all’interno della struttura, dedotte dal processo di costruzione della città. A Napoli, dove l’eccezionalità degli impianti monumentali è celata all’interno di recinti che garantiscono la continuità dell’assetto morfologico generale, sistematicamente ogni nuova eccezione può essere riassorbita spostando il recinto e sopprimendo il tracciato stradale. E’ una tecnica coerente alla natura dell’impianto, dunque, e che anzi la esalta, ma anche l’unica che consentirà di riassorbire i vuoti delle nuove aree archeologiche.
Se l’urbanistica dell’ottocento aveva cercato con accanimento la continuità tra la nuova scala urbana e la città antica – una continuità impossibile -, oggi, rispetto a un centro antico circoscritto e finito, ad ogni settore urbano va riconosciuta una autonomia figurativa da circoscrivere e ridefinire. Nella giustapposizione dei sistemi si sono venute evidentemente a creare delle aree di risulta non rapportabili qualitativamente con alcuna delle parti a confronto. Queste aree sono assimilabili a superfetazioni, nel senso che non riescono a avere la dimensione minima del sistema di appartenenza: sono quindi potenzialmente i vuoti in cui non si deve più ricostruire, vuoti che acquistano configurazione spaziale proprio dal confronto dei diversi sistemi esplicitati come entità figurative distinte. La successione degli episodi spaziali dove i sistemi si separano e si confrontano è definita “area di soglia”- è il tema intuito “dietro il risanamento” a Napoli, tra il paravento del Rettifilo e il bordo del centro antico (12).
Fuori dalla continuità del settore antico la città è intesa dunque come un sistema aperto dove le parti, tutte riconoscibili per natura e forma, convergono, si confrontano, si separano. Il progetto urbano diventa l’intuizione e il tracciamento di quel limite affinché la soluzione di continuità tra le parti si manifesti con l’evidenza dell’innovazione spaziale – quindi gli elementi della città esistente trovano una conferma moderna, riscoperta e proiettata in uno scenario inedito. A Bari lo spazio di soglia, l’antidoto vero alla monotonia, è colto in coincidenza col quartiere della Madonnella (tema ignorato dal concorso del 1990): in prossimità della rotonda che raccorda i due bracci del lungomare, dove i due sistemi urbani si affiancano nell’inerzia delle rispettive posizioni, l’area del vecchio quartiere Icp ritorna in primo piano come occasione per costruire la nuova relazione tra le parti – interruzione distanziamento isolamento dei sistemi architettonici sul mare (13). A Venezia, sulla riva di S. Basilio, la proposta (14) ha individuato una serie di interventi puntuali intesi a costruire, in forma esplicita o solamente implicita, la linea di demarcazione tra i due sistemi – la città antica e la città industriale – che si fronteggiano sul confine dell’acqua (15).
(1) Tra l’89 e il 91 ho seguito le vicende dell’architettura in Olanda, particolarmente a Amsterdam, con una serie di articoli pubblicati su L’Industria delle Costruzioni.
(2) Cfr. “Dietro il Risanamento”. I quartieri bassi di Napoli”, ed. LAN, Napoli 1984.
(3) Cfr. op. cit., pp. 13-14.
(4) Cfr. “Progettare la morfologia, Aversa”, ed. CUEN, Napoli 1999.
(5) Crf. “Atlante critico di Morfologia Urbana. Bari, la linea del mare”, ed. Safra, Bari 1994, pp.32-34; “Bari la linea del mare. Progetti”, ed. Safra, Bari 1996, pp.21-30.
(6) Cfr. “Tre progetti nel corpo di Napoli”, ed. Clean, Napoli 1993, pp. 9-11.
(7) Alla fine si ritorna alla posizione di Rogers (Verifica culturale dell’azione urbanistica, 1957) e al rischio del progetto affidato alla perizia dell’architetto.
(8) Cfr. relazione al XII seminario di Gibilmanna 1984, pubblicata in “Materiali d’architettura”, a cura di Uberto Siola, ed. E.DI.SU. Napoli 1990, pp. 257-264.
(9) Cfr. Relazione al progetto per il Concorso di idee per il recupero funzionale e architettonico del fronte mare del centro antico di Molfetta, 1995.
(10) Cfr. opp. cit., pp. 28-30 e pp. 6-13.
(11) Cfr. “Santa Chiara, la piazza il recinto il contesto”, mostra del progetto, Refettorio di S. Chiara, Napoli 1984; “Il Corpo di Napoli. Restauro urbanistico del centro antico”, ed. Clean, Napoli, 1a edizione 1986 e 2a edizione 1992.
(12) Cfr. “Dietro il Risanamento. Il centro antico di Napoli”, ed. Clean, Napoli 1983.
(13) Cfr. opp. cit., pp. 39-41 e pp. 6-13.
(14) Cfr. Relazione al progetto per il Concorso di progettazione per una nuova sede I.U.A.V. nell’area dei Magazzini Frigoriferi a San Basilio, 1988.
(15) Cfr. Salvatore Polito, “Progetti e ricerche”, in ArQ 17, Electa Napoli 2000.
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